Diritto del Lavoro 2


1.      DIRITTO DEL LAVORO 14/03/2011 – Flessibilità e precarietà.


Il Diritto del Lavoro è instabile, è sempre in divenire, e cambia continuamente. Le imprese possono utilizzare mano d’opera come lavoro subordinato ma anche al di fuori della sua regolamentazione. Il rapporto di lavoro si compone di inquadramento, retribuzione, orario di lavoro, e si estingue con il licenziamento. Il contratto a termine è il simbolo di precarietà per eccellenza, ed utilizzato più che altro per la mano d’opera femminile: maternità, famiglia, etc.
Gli istituti nuovi sono strumenti per flessibilizzare il lavoro dipendente rendendolo più accessibile. Essere precari è una grande disgrazia poiché evoca instabilità, incertezza, etc. Dire che è giusto lavorare flessibilmente è una affermazione che rinvia al modo di organizzazione delle imprese (diminuire o aumentare i volumi di produzione in base alla domanda di mercato), aumentare a dismisura la gamma dei prodotti. Produrre flessibilmente significa anche licenziare nei periodi di crisi, e l’Italia prevede la cassa integrazione per i disoccupati. La flessibilità può riguardare il tempo di lavoro, ma si può anche far riferimento alla retribuzione (adeguandola alla produttività v’è incentivo al lavoro), ma anche alla stessa tipologia di lavoro (anziché essere occupato a tempo indeterminato si può essere occupato in modo flessibile: a tempo determinato, part-time, etc.).
Aver un rapporto di lavoro stagionale è un grande vantaggio per uno studente. Mentre per uno studente il lavoro stagionale è un lavoro conveniente, per un adulto non lo è. Questa visione del lavoro come esperienza stabile è andata via, via frantumandosi, attraverso la regolamentazione giuridica che ha reso il rapporto di lavoro sempre più flessibile e sempre più incerto ed insicuro. A partire dalla fine del secolo scorso in Italia si è realizzata una frantumazione accentuata con una moltiplicazione di rapporti di lavoro flessibili a tal punto che si può parlare di distinzione tra i due tipi di rapporto.
Il lavoro flessibile si identifica con il lavoro precario, e vi sono rapporti più precari, altri meno (in quanto più stabili, ma sempre secondo comparazione relativa e non assoluta). Anche i lavoratori di grande industria vivono una situazione di insicurezza. I più stabili sono il co.co.co. ed il co.co.pro.: si lavora per un progetto che ha una durata annuale, biennale, etc. Poi vi sono i lavoratori somministrati che hanno un rapporto con l’agenzia. I lavoratori associati in cooperative sono più stabili di quest’ultimi ma sicuramente meno rispetto al lavoro dipendente a tempo indeterminato.
I lavoratori part-time non possono essere annoverati fra i lavori precari: si lavora meno, si guadagna meno, ma può essere a tempo indeterminato (anche se può esistere il part-time a tempo determinato, con l’incrocio di due flessibilità). Il contratto a termine è senza futuro, è un contratto che si esaurisce senza neppure un licenziamento, si estingue naturalmente: può essere una data certa, ma anche una condizione. Il lavoratore subordinato sa che prima o poi il rapporto di estingue, ed il rapporto è flessibile perché investe la condizione del tempo e non altri contenuti: è un contratto di lavoro subordinato a tutti gli effetti.
La tipicità deriva dal fatto che il contratto ha un termine finale, e l’unico elemento di differenza è quindi il tempo. La differenza col contratto part-time risiede nella prestazione, mentre il contratto a termine ha un termine finale. Il contratto è il contenitore, la prestazione è il contenuto.
Con il codice del 1865 il contratto a termine era l’unico insaturabile: il contratto a tempo indeterminato era vietato: il capitalismo stavasi affermando sulla servitù feudale della gleba, assieme alla rivoluzione industriale. Il lavoratore lo si tutelava vietandogli il contratto a tempo indeterminato; ma capendo che il capitalismo non funzionava, il codice corporativo tutela il lavoratore eliminando le preoccupazioni del codice del 1865. Il contratto a di lavoro si determina a tempo indeterminato in quanto non si poteva organizzare la propria vita non avendo una certezza sul futuro.
Questa regola però non faceva che rimanere un flatus vocis se non avesse una regolamentazione concreta con debita esecuzione. Negli anni ’60 si è quindi cominciato a dare esecuzione alla tutela del lavoratore subordinato. Il massimo di rigidità è stata realizzato nel 1962: l’atteggiamento di disfavore del contratto a termine si afferma con la disposizione che prevede tale contratto come una eccezione regolando la tipicità dei casi. Si definiscono le ipotesi eccezionali, ed al di fuori di quelle ipotesi limitate il rapporto è illegittimo. Negli anni ’60-’70 entra in vigore la riforma sul lavoro con la formula della stabilità con un sistema forte di garanzie.
Il 95% (orientativo) dei rapporti era solo a tempo indeterminato ed il datore poteva licenziare solo con molta difficoltà ed è stato il periodo di massima stabilità. Dagli anni ’80 si vuole invece rendere più gestibile il contratto a termine. L’alternativa dell’uso del contratto a termine è quello che viene proposto oggi: abolire il contratto a termine ed abolire il licenziamento (o limitarlo fortemente). L’UE ha suggerito la flessibilità in un contesto di sicurezza.
Ø  Prima del 1962 il contratto a termine era una eccezione, dopo lo si considera insostenibile. Vi era nella regolamentazione del 1962 sei ipotesi di lavoro a termine: stagionale (agricoltura, turismo), supplenza, servizio straordinario od occasionale, maestranza specializzata, spettacolo, trasporto aereo tra Aprile ed Ottobre. Fuori da queste ipotesi il contratto a termine era vietato. Il contratto a termine può essere stipulato solo per iscritto (quello a tempo indeterminato si presume tale e si conclude anche oralmente). La pena prevista per la illiceità è la conversione a tempo indeterminato con il pagamento di tutta la durata dalla prima all’ultima prestazione.
Ø  Nel 1987 viene ridotta la rigidità e vengono introdotte ipotesi autorizzate dai sindacati (contratti collettivi). I Giudici applicavano in modo strettissimo le ipotesi di tipicità, recidendo le ipotesi atipiche. La direttiva europea del 1998 rende competente l’UE in materia di lavoro, ed i primi due interventi furono in lavoro flessibile avendo attuazione con il D. Lgs. 368/2001.
Ø  Nel 2001 si ammette il (“causalone”) rapporto a termine a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo (tutto in astratto rientra: più nessuna limitazione). In Italia si ritiene che il contratto a termine è il contratto precario per eccellenza, e quando il legislatore assume una prospettiva diversa (2001 – Governo Berlusconi) v’è resistenza delle magistrature poiché i giudici del lavoro erano formati secondo la legislazione del lavoro precedente. Si fa esplodere l’impalcatura rigida: si sostituiscono le varie causali con la causale unica (Ma ci si è domandati se si trattasse di una decausalizzazione o una causalizzazione amplissima) con la piena liberalizzazione del contratto a termine.
Se il legislatore pone in essere una regolamentazione in contrasto con la direttiva europea non si deve attendere il giudizio di incostituzionalità: il giudice italiano può automaticamente disapplicare la legge (seppur ancor in vigore). Ci hanno pensato i giudici a ricostruire la limitazione: il ragionamento prevedeva illegittimità del rapporto in assenza di termine: l’esigenza deve essere eccezionale e non ricorrente. Il lavoro a termine è ammesso solo come extrema ratio, cioè quando, pur in presenza di un’occasione permanente di lavoro, sia inevitabile a causa dell’oggettiva temporaneità dell’occasione di lavoro, oppure anche quando sussista una qualche ragione che renda in concreto preferibile un rapporto a termine?
Il legislatore dice che la temporaneità basta al fine di aversi contratto a termine. Il Giudice ritiene che non basta la temporaneità: è necessaria l’eccezione, altrimenti il contratto a termine è illegittimo: bisogna assumere un’attività straordinaria e non più ordinaria.
Se si mettono i due strumenti sullo stesso piano viene meno la dialettica regola-eccezione. Lo Stato di diritto esiste perché v’è il legislatore che cristallizza la sua volontà, ed il giudice deve solo interpretare.


2.      DIRITTO DEL LAVORO 21/03/2011 – Contratto a termine


Le nuove tipologie di lavoro di natura temporanea che hanno impresso il crisma dell’instabilità diventano sempre più importanti dal punto di vista della necessaria conoscenza e diventano sempre più in Italia la porta verso il mercato di lavoro, ed è sempre meno probabile che un datore proponga ai novelli o ai licenziati un contratto a tempo indeterminato. Man mano che i lavoratori vanno in pensioni e sono dei lavoratori a tempo indeterminato, questi vanno sostituiti con modelli contrattuali temporanei.
Il lavoro temporaneo è più diffuso: il mercato del lavoro è una porta girevole, che con la stessa facilità d’ingresso, vi è l’uscita. Tutte le forme del lavoro instabile sono modelli contrattuali che legittimano una uscita fisiologica dal mercato del lavoro. Questa situazione diventa in Italia particolarmente drammatica poiché i Governi hanno investito poco sugli ammortizzatori sociali. Non si trova lavoro, sia per chi ha già lavorato (disoccupati), sia per chi non ha mai lavorato (inoccupati).
Il contratto a termine è un contratto senza futuro per eccellenza, ed è segnato su una data finale, ed è stato regolato in Italia con disfavore: è un’eccezione e quindi il datore è autorizzato solo nei casi espressamente e tassativamente espressi dal legislatore. Ci si rende conto che assumere più facilmente con un contratto a termine è comunque una possibilità di lavoro: meglio lavoro a termine che nulla. Un datore di lavoro che si rende conto che un lavoratore è effettivamente utile e se durante le esperienze di lavoro ha investito in formazione è suo interesse procedere ad una stabilizzazione
All’interno di questi orientamenti si colloca la regolamentazione del contratto a tempo determinato. Ma è necessario di non allargare troppo le maglie in quanto vi è una frantumazione eccessiva del contratto di lavoro. Dopo la stagione degli anni ’60-’70 era necessaria una sistemazione: il legislatore negli anni ’80 ha trovato una soluzione, non lasciando questo potere all’imprenditore, ma si deferì la concessione ai sindacati. Questa soluzione è durata una quindicina d’anni e poi gli imprenditori si sono comunque dichiarati insoddisfatti. Negli anni ’90 si realizza un fatto nuovo: la materia dei contratti atipici viene assunta come ordinaria e diretta dall’UE. Alla fine degli anni ’90 la UE si fa carico d’intervenire anche su alcuni aspetti sociali, su materie tipiche della regolamentazione sociale. Una delle prime direttive è proprio quella su contratto a termine. Poiché si tratta di tutelare il lavoro in materia armonica ed uniforme.
Il legislatore ha recepito la direttiva europea ed ha colto l’occasione per modificare il contratto a termine: uno dei principi che viene sempre inserita in queste direttive è la c.d. clausola di non regresso: “Badate che quando tu Stato applichi una direttiva europea in materia sociale, non ne devi approfittare per far regredire i livelli di trattamento per peggiorare lo standard, perché  l’UE serve ad attuare delle politiche sociali comuni”.
CISL e UIL autorizzano il Governo ad emanare un D. Lgs. (il 368/2001) incidendo pesantemente sull’assetto precedente, giustificato dall’attuazione della direttiva europea. Nel 2001 la regolamentazione tassativa si capovolge e si legittima la stipula con il “causalone”. Ma il “causalone” è una vera causa? Viene lasciato all’imprenditore la scelta sul regime del rapporto da stipulare?
Il contratto a termine e quello a tempo indeterminato sarebbero sullo stesso piano, ma allora: c’è un regresso? Il contratto a termine può essere regolato malgrado i vincoli europei in maniera del tutto libera e discrezionale? Il legislatore, quando c’è da regolare una riforma, deve fare i conti con i limiti di sistema (limiti della separazione dei poteri, limiti costituzionali, democratici, etc): il primo problema che si deve porre è la approvazione alle camere. I limiti ed i vincoli con cui ci si deve confrontare sono anche quelli oggi provenienti dall’ordinamento europeo e sono tanto stringenti quanto lo sono quelli costituzionali.
I vincoli sono: la direttiva è superiore alla legge interna, e l’interpretazione della Corte europea è vincolante per i giudici periferici (i giudici ordinari dei singoli Stati). Il legislatore ha interpretato ponendo l’esigenza che proviene dal mercato, la necessità d’aumento dell’occupazione liberalizzando il contratto a termine: l’UE dice di aumentare il più possibile il livello occupazionale, quindi il legislatore crede di trovarsi in linea (mirando alla quantità e non alla qualità).
La ricetta ha funzionato: dal 2000 al 2007 in Italia v’è stata una recessione latente (mancata crescita) con aumento dell’occupazione. Malgrado questo cambiamento la giurisprudenza cambia non commettendo un abuso: il legislatore neanche sta sbagliando nell’affermare di applicare la direttiva europea. Ma l’UE dice che il rapporto di lavoro normale è quello a tempo indeterminato, e bisogna evitare l’abuso della reiterazione del contratto a termine.
Il giusto utilizzo del contratto a tempo determinato sarebbe quello dei casi eccezionali, e non nella pratica ordinaria. Secondo l’interpretazione della Corte italiana ci sarebbero comunque vincoli andando a stringere ancora di più: se prima il datore sapeva tassativamente quando assumere a tempo, adesso deve provare l’eccezionalità. Se c’è iterazione, la sanzione è la conversione ex-tunc (fin dall’inizio). La regolamentazione, riguardando tutti gli Stati, non può che essere a maglie larghe.
La Cassazione trova un limite che serve ad interpretare la legge dello Stato recepito nel D. Lgs. 368/2001: poiché il contratto a termine è necessario un atto scritto e motivato. Questa interpretazione viene suffragata dalla Corte di Giustizia Europea. Quando ha finito per mettere in discussione l’interpretazione degli Stati, ha ritenuto illegittimi i principi prima ancora dei provvedimenti: la Corte di Giustizia Europea si comporta come una Corte Costituzionale giudicando sui principi universali.
Nel decreto legislativo 368/2001 era stata eliminata la regola della tassatività; nel 2007 sulla base delle giurisprudenze il Governo Prodi reinserisce questa norma: il contratto ordinario è quello a tempo indeterminato. Per aggirare i vincoli della giurisprudenza il Governo è intervenuto sulla tutela sostanziale, dicendo: “è consentita l’apposizione di un termine nel contratto a tempo indeterminato in casi particolari anche se in relazione ad attività ordinarie del datore di lavoro”. L’ultimo inciso contraddice alla regolamentazione.
Ad oggi si deve impugnare entro 60 giorni il contratto considerato illegittimo, ed entro 9 mesi il ricorso giudiziario. Il conflitto tra giurisprudenza e legislatore continuerà. Il legislatore del 2001 ha introdotto ulteriori limiti nell’utilizzo del contratto a termine: il contratto di lavoro come regola deve essere a tempo indeterminato e non si può legittimare il caso in cui tutti i dipendenti dell’azienda siano a termine, quindi bisogna ricorrere alla contrattazione collettiva che prevede un tetto massimo di rapporti di una specifica regolazione: indeterminato, determinato, co.co.co., co.co.pro., etc.
Il legislatore è comunque sempre in linea con la direttiva europea, e ci sono alcune cause in cui le imprese non sono soggette a queste regolamentazioni di legge. Nella fase di avvio dell’aziende è possibile che si assuma il 100% di lavoratori a termine. Esistono tutta una serie di divieti in cui il datore non può comunque stipulare contratti a termine: in periodo di sciopero (comportamento anti sindacale), in situazione di crisi, quando non si rispettano gli obblighi di sicurezza.
I lavoratori a termine si computano per la reintegra solo se il contratto prevede un termine superiore ai nove mesi. Se manca la forma scritta il contratto invalido, nullo, inefficace, e si trasforma a tempo indeterminato: non deve essere solo scritto ma deve avere un contenuto particolare. I veri problemi del contratto a termine non derivano dall’iniziale termine: il problema della precarietà si realizza quando presso lo stesso datore di lavoro vengono stipulali più contratti, con un’attività discontinua.
Il contratto diventa una trappola di precarietà quando il datore reitera: interrompe e rioffre. Questa regolamentazione è considerata patologica, e la direttiva non regola (dice il legislatore) restrittivamente il contratto a termine, ma mette a disposizione possibilità che altrimenti non verrebbero offerte: diventa un abuso quando viene reiterato.


3.      DIRITTO DEL LAVORO 22/03/2011 – Reiterazione, proroga e continuazione.

 

La direttiva dell’UE che recepisce l’accordo si preoccupa non tanto la legittimazione del contratto a termine (ogni Stato fa quello che vuole) purché resti il principio dell’eccezionalità, parità di trattamento (tranne per quegli istituti che in sé contengono una necessaria regolamentazione differenza: gratifica quinquennale, etc.). L’unica questione che la direttiva affronta con decisione è quella dell’abuso del contratto a termine reiterato (che è più di un germe di illiceità: una bestia feroce). Giuridicamente la possibilità di un contratto a termine nato come a termine finisce per essere reiterato non da garanzie, soprattutto in ambito reddituale.
La tutela è abbastanza forte in quanto il lavoratore a termine ha le stesse garanzie del lavoratore subordinato. Un lavoro frammentario non integra quelle prerogative del lavoro decente che le organizzazioni internazionali perseguono. Il contratto a termine deve essere utilizzato una sola volta, e l’esito di quella esperienza dev’essere la stabilizzazione. La proroga è allungamento del contratto a termine, implica una novazione della sola clausola del termine, e non l’intero contratto, ma le parti non possono scegliere liberamente come applicare la proroga:la vecchia legge diceva che si può prorogare solo una volta, solo per la stessa durata, solo per lo stesso lavoro, per contingenze impreviste ed imprevedibili; la nuova legge dice che non si può superare il limite di tre anni per contratti minori a tre anni, ma alcuni hanno interpretato dicendo che se la proroga non può superare i tre anni, non si può stipulare contratti a termine superiori a tre anni, ma non tutti sono d’accordo (p.es.: Sebastiano Bruno Caruso).
E la riassunzione è la situazione apparentemente più normale, ma più abusiva.
Per la continuazione il datore deve contro prestare una maggiorazione: 20% in più per i primi dieci giorni, e del 40% dall’undicesimo giorno in poi. Questa è una tipica tecnica normativa volta a scoraggiare una ipotesi contrattuale a termine continuata oltre il termine medesimo. E’ il datore di lavoro che continua il rapporto in quanto gestore dell’equilibrio economico, ma egli deve pagare di più.
Se il contratto era di soli sei mesi e perdura oltre il ventesimo giorno, e se era di oltre sei mesi, e perdura oltre il trentesimo, allora vi è una sanzione vera e propria: interviene la norma imperativa ed impone la compressione del contratto (rimane tale e quale ma viene invalidato il termine: viene travolta la clausola ma non il contratto che si trasforma a tempo indeterminato).
Qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni della data di scadenza di un contratto  di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Quando si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendovisi  per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità il rapporto si considererà a tempo indeterminato.
Si presume de iure la frode alla legge senza necessità di prova. Se si rispetta l’intervallo la legge consente la reiterazione fatto salvo l’art. 1344 Cod. Civ. E’ il giudice che deve discernere la frode. Qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
Se il contratto a termine è illecito prevede la conversione del rapporto in contratto a  tempo indeterminato. Il contratto a termine nel pubblico impiego ha la stessa disciplina delle imprese private ma con alcune differenze, ma ad un certo punto la differenze si sono fatte così tante che il contratto a termine nel P.I. è stato regolato separatamente ed abbastanza differenziatamente.  Lo stesso regime della conversione (privatistica) non può essere applicata de plano al P.I. in quanto in esso l’assunzione avviene per pubblico concorso.
Il legislatore è stato costretto a regolare diversamente il contratto a termine nel P.I. restringendo fortemente i diritti del lavoratore rispetto al dipendente privato. Una volta che è stato tolto il vincolo del pubblico concorso la P.A. ha inondato il P.I. di precari. Nel 2007 attraverso una regolazione di natura finanziaria è stata ristretta l’assunzione nelle P.A., ed è stato precluso il mercato del lavoro esterno, reintroducendo il pubblico concorso.
Con la Legge “Brunetta I” 133/2008 si riapre il mercato del lavoro esterno alle PP.AA. aggirabile con un concorso pubblico. La Legge ”Brunetta II” 192/2009 è intervenuta nuovamente sull’argomento eliminando la vecchia disciplina del quinquennio liberalizzando ulteriormente.
Per il contratto a termine illecito nella P.A. non si prevede la reintegra (la conversione solo quando lo preveda il legislatore). La P.A. può rivalersi nei confronti dei dirigenti che hanno effettuato l’assunzione illegittima. La materia del contratto a termine è materia regolata dalla Unione Europea.


4.      DIRITTO DEL LAVORO 23/03/2011 – Part-Time


I contratti part-time non sono alternativi al contratto di lavoro subordinato ma sono delle varianti di quest’ultimo. La differenza del contratto a termine e del contratto part-time risiede nel tempo: il part-time può essere anche a tempo indeterminato, ma ad orario ridotto entro uno stesso giorno; il contratto a termine ha una scadenza ma (come può anche essere part-time) è ad orario continuato. Su questo modello di contratto che riduce la durata del tempo normale concentra interessi generali.
Il legislatore interviene perché attraverso la promozione dei contratti part-time si vuole salvaguardare obiettivi di vari interessi: tre: sollecitare questa forma contrattuale significa andare incontro agli interessi di gestione dell’impresa. Il part-time è uno strumento di flessibilizzazione sotto il punto di vista temporale della prestazione. Il soggetto che più spesso usa il part-time è la donna di famiglia: proprio per non uscire il mercato del lavoro si accetta questa forma flessibile di rapporto.
Dando la possibilità di stipulare contratti atipici, alla fine si finisce sicuramente per mettere sicuramente a disposizione un lavoro, sebbene non “normale”, che consente un incontro tra domanda ed offerta e complessivamente un aumento dell’occupazione. Il lavoro part-time è un lavoro che non funge da trampolino per la carriera: si produce in via di fatto una discriminazione lavorativa di chi lavora part-time, che maggiormente sono le donne.
Il part-time è stato fortemente incentivato dall’Unione Europea e si inserisce all’interno della direttiva dell’adattabilità del lavoro. A seconda dell’esigenza della produzione si ricorre al part-time anziché ricorrere ad esterni o straordinari all’interno di un’azienda. Un altro strumento è la riduzione dell’orario di lavoro: si lavora tutti meno creando più occupazione. Distribuendo meglio il tempo si può dare più spazio al lavoro part-time. Ogni ora in più rispetto alle 38 ore si deve pagare straordinariamente, ma con il part-time ci sono meno spese.
Bisogna pensare a contratti che incidano sul tempo consentendo pause poiché si volge verso una direzione in cui la preparazione di alta cultura è necessaria sempre: bisogna lavorare e studiare per essere sempre aggiornati (p.es.: informatici, medici, avvocati, etc.). Bisogna ripensare radicalmente il rapporto tra studio e lavoro per potersi formare continuamente. Il part-time si inserisce anche all’interno di questa direzione che l’Unione Europea sta auspicando: gli Stati devono darsi norme di legge sulla regolamentazione del part-time.
In Italia il quadro regolativo è alquanto complesso: la prima regolamentazione è avvenuta con legge n. 863 del 1984, la quale è stata modificata dalla Legge “Biagi”, il c.d. Libro Bianco. Il part-time da scelta libera comincia a trasformarsi in strumento imposto dal datore. La linea critica che separa la scelta libera al lavoro precario imposto sta proprio in questo tipo di rapporto. Il massimo d’imposizione avverrebbe nella conversione coatta dal tempo pieno a tempo indeterminato al part-time. Ma il contratto full-time non può essere trasformato unilateralmente in part-time in quanto il contratto è legge fra le parti.
La legge definisce tempo pieno il contratto ordinario regolato dalla contrattazione collettiva, invece definisce tempo parziale il contratto individuale regolato fuori dal tempo ordinario regolato dal contratto collettivo (38 ore). Esiste il lavoro a tempo parziale orizzontale (tutti i giorni, ma mezza giornata) e quello verticale (tutta la giornata ma non tutti i giorni). Il contratto di lavoro può essere stipulato in due modi: stipulazione diretta (incontro di volontà nel mercato del lavoro); trasformazione di un full-time.
Mentre la stipulazione diretta è più fisiologica come ipotesi, la trasformazione (che dovrebbe essere volontaria) è soggetta a pressioni (il datore minacciando il licenziamento propone la soluzione del part-time), e quindi non può che essere guardata con sospetto dal legislatore sebbene dal contratto figuri la volontà genuina (con timbro della Direzione provinciale del Lavoro). Il legislatore deve pertanto tutelare questa posizione al fine di evitare abusi od elusioni della regola di legge. La trasformazione può avvenire solo per iscritto  e non può essere imposto unilateralmente (dal datore). Il rifiuto della trasformazione non è giustificato motivo per il licenziamento.
Ma la trasformazione ha una garanzia tale da spingersi in diritto? Può il lavoratore esigere la trasformazione per questioni personali. La trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale può essere concessa entro sessanta giorni dalla domanda (la vecchia dicitura era: “avviene automaticamente” per le PP.AA.). Il Part-time non è un diritto come nel settore privato, e può essere modificato dal datore di lavoro: è necessario un contratto bilaterale. Solo i malati di cancro hanno il diritto al part-time.
Le imprese spendono meno ad assumere nuovi lavoratori a tempo pieno che trasformare quelli a tempo parziale (dati gli incentivi). Era previsto nel D. Lgs 61/2000 la trasformazione con prelazione, cancellato con la legge Biagi, e reintrodotto con la Legge Brunetta solo per coloro che volessero tornare al precedente regime full-time (chi quindi avesse già effettuale in senso opposto il cambiamento). Nel contratto a termine la funzione della forma è centrale, perché mentre 9,5 volte su 10 il contratto a termine è imposto, il contratto part-time può essere frutto di un incontro di volontà.
Prima del D. lgs. 62/2000 la giurisprudenza di Cassazione si espresse dicendo che la forma scritta prevista per la stipulazione del contratto di lavoro a tempo parziale, costituisce un requisito stabilito “ad substantiam” e non già “ad probationem” (Cass. 2231/1991). Ma visto che gli effetti della nullità erano paradossali il legislatore delegato del 2000 aggira la giurisprudenza.


5.      DIRITTO DEL LAVORO 28/03/2011 – Varie tipologie di lavoro parziale


Sul finire del 1990 l’UE ha emanato delle regolamentazioni in materia di contratto a tempo parziale e contratto a termine, che non sono allo stesso modo desiderabili: rientrano entrambi in un più ampio quadro d’organizzazione d’occupabilità della Comunità Europea, ma quello a termine viene visto con sospetto in quanto generante precarietà, e con favore quello a tempo parziale. L’occupabilità e l’adattabilità alle esigenze dell’impresa vengono favorite in quanto destinano a conciliare i tempi di lavoro e di vita (in riferimento maggiormente alle donne).
L’elemento della volontarietà del lavoratore è fondamentale per ragioni di lavoro e di vita: la differenza è fondamentale e la regolamentazione è compiuta con ingenti tutele al fine d’evitarne l’abuso. Gli elementi del contratto part-time devono essere definiti, bisogna specificare tutto altrimenti sussisterebbe pericolo d’abuso e di mancanza di volontarietà. Il lavoro a tempo parziale si caratterizza quindi per l’orario ridotto della prestazione giornaliera.
Oltre al part-time orizzontale e verticale vi può essere quello misto (tre giorni la settimana, mezza giornata). Il principio volontaristico è pertanto a fondamento dell’intera disciplina del contratto a tempo parziale: la differenza è posta al fine di non ricadere nel tempo pieno (full-time). La trasformazione è circondata da cautele in quanto è guardata con sospetto (da full-time a part-time): il tempo parziale dev’essere scelto dal lavoratore, e deve essere convalidato dalla Direzione provinciale del Lavoro e la volontà del lavoratore deve esser genuina e libera. In ogni caso, il rifiuto della trasformazione non può comportare e rappresentare un giustificato motivo di licenziamento.
Prima esisteva il diritto del lavoratore del P.I. alla trasformazione, ma adesso non esiste più. La legge 247/2007 ha mantenuto il diritto del lavoratore di vedersi trasformato il contratto qualora egli sia affetto da patologie oncologiche. Il contrario (da part-time a full-time) ha subito tutta una serie di vicissitudini, ma adesso è stato reintrodotto ma solo per coloro che già avevano effettuato la trasformazione di senso opposto.
Uno dei problemi maggiormente dibattuti in dottrina era la forma scritta (adesso risolto completamente), e di quale valore giuridico avesse (ad substantiam o ad probationem): i risultati erano paradossali qualora si scelse la forma ad substantiam: esclusione della clausola del tempo parziale, ma questa soluzione era insoddisfacente poiché veniva sublimata la volontà del lavoratore. Il part-time in quanto strumento tipico di gestione dell’occupabilità è un contratto rispetto al quale può benissimo misurarsi l’atteggiamento del legislatore come cartina di tornasole. La regolamentazione a partire dal 2000 è variata tre volte in dipendenza degli orientamenti politici.
Il contratto di lavoro a tempo parziale richiede l’indicazione della durata del tempo di lavoro e della sua distribuzione. La mancanza della clausola implica la conversione in full-time del contratto di lavoro. La sanzione in caso di mancanza della clausola di distribuzione non è così grave ma fa in modo che sia il giudice a decidere quali siano le modalità di distribuzione dell’orario di lavoro. Il lavoro supplementare è quello che fa estendere in durata il rapporto di lavoro e lo utilizza nel part-time orizzontale, in quello verticale o misto invece vi sono clausole di elasticità (quanto si lavora).
Le clausole flessibili consentono di variare la collocazione della prestazione lavorativa (quando si lavora). Anche nel contratto a tempo determinato è possibile instaurare prestazioni supplementari (e non solo nei rapporti a tempo indeterminato, come prevedeva il D. lgs. del 2000).
Il vecchio decreto legislativo prevedeva una chiarissima distinzione dei casi d’effettuazione di lavoro supplementare, ed, ove fosse previsto dal contratto collettivo, ed ove non fosse previsto, in ogni caso il lavoratore avrebbe dovuto prestare la volontà. Con la nuova disciplina invece qualora vi sia la previsione del contratto collettivo non era necessaria la volontà del lavoratore. Essendo il datore di lavoro liberato dalla doppia autorizzazione può costituire contratti con minori vincoli, e con molta più facilità rispetto al passato.
Un’altra forma di lavoro supplementare era prevista per il lavoro parziale verticale: la clausola elastica dev’essere contenuta nel contratto sottoscritta dal lavoratore, e le differenze tra orizzontale e verticale o misto risiede nella frequenza dell’accettazione: ogni volta o una volta per tutte. Durante la prestazione il datore potrebbe chiedere una prestazione straordinaria ed il lavoratore nel part-time verticale o misto accetta una volta per tutte.
Il regime giuridico di queste clausole elastiche e flessibili è stato modificato varie volte (Vecchio, Nuovo, Nuovissimo). Il principio della doppia chiave d’autorizzazione viene reintrodotto nel 2007: il consenso individuale implica la formalizzazione mediante atto scritto con un componente della RSA. Con l’assistenza sindacale si presume che vi sia certificazione di libertà e genuinità della volontà. Un ulteriore differenza sta nel preavviso che nel vecchio era previsto di dieci giorni, poi due, poi portato a cinque.
Il diritto di ripensamento non esiste più e non è stato sostituito o ridisciplinato. Ciascun part-timers veniva computato in proporzione del lavoro svolto in applicazione di tutte le leggi tranne in rapporto alla 300/70: ad oggi si tiene conto anche dello Statuto dei Lavoratori, ed i part-timers vengono computati nella loro unità.
In passato nel P.I. esisteva un diritto di trasformazione del rapporto di lavoro ma con una regolamentazione strettamente legata con gli interessi amministrativi: la P.A. può servirsi dei part-timers per esigenze di costo ma con interessi diversi rispetto a quelli dell’impiego privato.
Il contratto di lavoro (Job on call) intermittente è stato introdotto nel 2003 ed è il più flessibile in assoluto del nostro ordinamento: il datore può definire l’an ed il quantum della prestazione. Non è una prestazione dietro retribuzione soltanto, ma disponibilità dietro indennità. Il lavoratore si mette a disposizione secondo i limiti stabiliti dalla stessa legge. Questa tipologia ha creato molti problemi d’inquadramento (alcuni l’hanno definito “non-contratto”). Nel rapporto di lavoro intermittente con obbligo di risposta non è ammesso rifiuto, salvo giustificato motivo da comunicare tempestivamente.
L’indennità di disponibilità manca nell’ipotesi di contratto di lavoro intermittente senza obbligo di risposta. Questa tipologia contrattuale era stata abolita nel 2007 per l’eccessiva flessibilità salvo alcuni settori (spettacolo, turismo). E’ stato reintrodotto dalla Legge 133/2008 e ci sono tratti di disciplina simili: preavviso non inferiore ad un giorno, utilizzo di disoccupati meno di 25 anni e più di 45 anni. La clausola meramente potestativa (pagherò se vorrò) in diritto civile rende nullo l’intero contratto, ma nel rapporto di lavoro intermittente (ti chiamerò se vorrò) è stato previsto lecito.
Vi è il divieto di discriminazione che è norma fondamentale che non ha subito variazioni: parità di trattamento tra lavoratore part-time e lavoratore full-time. Se con la disciplina del part-time si voleva garantire l’occupabilità secondo la direttiva comunitaria, buona parte di questo deriva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia discriminatoria per sesso. Statisticamente la maggior parte dei part-timers sono donne e si è cercato di disciplinare il divieto di discriminazione.


6.      DIRITTO DEL LAVORO 29/03/2011 – Istituti del rapporto di lavoro subordinato


Dentro al rapporto di lavoro nascono diritti di natura personale del lavoratore in quanto persona, e non già perché meramente lavoratore. Nel rapporto di lavoro questi diritti personali hanno una tutela particolareggiata: diritto a non essere discriminati (riguardo al sesso, razza, religione, ideologia, età, abilità, orientamento sessuale, ritorsione personale, mobbing, etc.), diritto ad lavorare in un ambiente salubre (con limiti solo riferiti alla sola tecnologia), diritto alla privacy (nel rapporto di lavoro c’è una specializzazione della tutela dei dati personali che riguarda chiunque in un mondo globalizzato immerso nella rete internet), diritto alla tutela della dignità (oltre al mobbing vi sono pratiche vessatorie che ledono la persona: violenza sessuale, situazioni di emarginazione, vessazioni orizzontali, etc.); ma vi sono anche diritti “professionali” del lavoratore: Diritto alla professionalità (in quanto soggetto che svolge una funzione, quindi in quanto lavoratore, tutela della professionalità, diritto alla formazione permanente), diritto a gestire i tempi di non-lavoro (permessi per salute, maternità, paternità, ozio creativo, riposo), diritto alla retribuzione (che sia soddisfacente e dignitoso), diritto a non essere licenziati senza giusta causa e giustificato motivo (sicurezza del posto di lavoro, stabilità).
Il rapporto di lavoro è però sinallagmatico e pertanto anche in capo al lavoratore sorgono obblighi: dovere di fedeltà e non concorrenza (fisicamente ci si sforza di meno, ma c’è più stress psicologico, più competitività), dovere di lavorare con diligenza (giusto rendimento).
I poteri datoriali prevedono dei “comandi” che però sono ponderati da contrappesi di legittimazione: investimento. Può esercitare l’impresa privata poteri assimilabili all’organo pubblico? Il Diritto del Lavoro riconosce l’esistenza di questo diritto ma lo limita, ma i poteri sono: potere di controllo della prestazione (controllo dei tempi, dei ritardi, della produttività, dell’attenzione, della diligenza, etc.), diritto del potere disciplinare (l’enorme potere di sanzionare con una pena che è di natura privata, l’unica), diritto al recesso (ex art. 41 Cost.), potere di organizzare il lavoro e la produzione (anche di esternalizzare, trasferimento di ramo d’azienda).
Marchionne è imprenditore, Agnelli è datore: chi prende le decisioni d’impresa è il manager (Marchionne), ma chi è il titolare dei diritti è il datore con i diritti di sospendere, interrompere, fondere, innalzare, etc. Questi provvedimenti del datore hanno forti ripercussioni sul lavoratore.
La retribuzione è un diritto contrattuale del lavoratore, ed è obbligo contrattuale del datore, e come tutti gli istituti del contratto di lavoro i riflessi di carattere generale sono immediati, ed alcuni istituti sono presi direttamente in considerazione dalla Costituzione. La retribuzione rileva costituzionalmente all’Art. 36, ma anche nelle leggi fondamentali di altri Stati. Le fonti legislative che riconoscono la retribuzione come diritto sono diverse: deve essere sufficiente, proporzionata alla quantità e qualità di lavoro. E’ l’obbligazione principale del datore e la controprestazione principale che riceve il lavoratore.
E’ importante capire subito che la retribuzione acquisisce significati sintomatici come obbligazione sociale di cui si deve far carico non solo il datore, ma anche lo Stato, la comunità e la Repubblica. La retribuzione è un diritto, addirittura costituzionale, ma non c’è diritto senz’azione: bisogna garantire la retribuzione sufficiente: legge sul salario minimo, contratto collettivo. L’art. 36 può essere invocato in tribunale? E’ questa una norma precettiva?
I primi commentatori hanno dichiarato che è una norma programmatica che necessità dell’intervento legislativo al fine di realizzare una normazione di grado ordinario vigente e richiamabile in tribunale, direttamente applicabile dall’interprete. Alla fine degli anni ’50, dopo l’inefficacia dei Decreti Vigorelli[1] (meccanismo extracostituzionale decretizio), mancando la volontà politica sulla normazione del salario minimo (che avrebbero messo fuori gioco molte aziende del Sud), ci pensò la Cort. Cost. eccentrica com’era con una serie di sentenza che indicavano una strada: si accettava il principio fissandolo precettivo, applicandolo direttamente.
E’ la giurisprudenza che pur di poter attuare l’art. 36 finisce per sostenere la contrattazione collettiva. Bisogna creare una soluzione che non vada fuori o addirittura contro la legge costituzionale: deve essere addentellata al diritto positivo: bisogna interpretare (creativamente) e non creare la norma. C’è una norma, l’art. 2099 comma 2 Cod. Civ., che non è stato abrogato: quando mancano i contratti corporativi è il giudice a definire la retribuzione equitativamente. La norma viene applicata non solo quando manca il contratto collettivo, ma anche quando c’è un accordo tra le parti in violazione del principio precettivo della sufficienza, quindi in presenza di accordi con minimi insufficienti (poiché i contratti collettivi esistono, e non mancano, ma non vengono adottati dalle parti).
I giudici hanno utilizzato i contratti collettivi come parametri del giudizio di adeguatezza della retribuzione e come punti di riferimento della consequenziale operazione correttivo-integrativa è stato ampio. Questo meccanismo è stato utilizzato in moltissime varianti amplissime facendo venir fuori le tesi “regine”.


7.      DIRITTO DEL LAVORO 30/03/2011 – La tesi “regina” dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo


Ci sono due angoli prospettici da cui poter osservare la retribuzione: obbligazione sociale (secondo la Costituzione) ed obbligazione come corrispettivo (secondo il Codice Civile, artt. 2094 e 2099). Sull’art. 36 Cost. i giudici hanno realizzato un’operazione fortemente creativa dal punto di vista tecnico trasformando tale articolo in una norma precettiva. Il giudice nella sua discrezionalità ha deciso per una questione d’equità sociale essere l’art. 36 una norma precettiva fin dagli anni ’50. Essendo il precetto della sufficienza alquanto generica era necessaria una specificazione.
Il diritto vivente pertanto mediante fonti normative assemblate dalla giurisprudenza crea il precetto del salario minimo, invece in relazione al Codice Civile si applica direttamente l’articolo 2094 e ss., e la tesi del combinato disposto tra quest’articolo ed il 36 Cost. è la tesi “regina”, la quale importanza è data sulla base del fatto che l’efficacia soggettiva gode di maggiori consensi nella giurisprudenza. Nelle tabelle retributive – dice il giudice - dei contratti collettivi possono ravvisarsi quei momenti di equilibrio tra confliggenti interessi per un tal giudizio equitativo, ma i contratti collettivi non sono efficaci erga omnes poiché richiamati dal giudice medesimo: il giudice nell’applicazione della Costituzione si guarda intorno e richiama taluni parametri senza creare cogenza.
Il giudice interviene non solo quando manca l’accordo, ma anche quando l’accordo e subdisciplinato. Quando si deve creare un’interpretazione nuova si implica la retorica e non la scienza: un giurista a qualunque livello deve convincere i suoi interlocutori e non dimostrare la verità oggettiva scientifica, il giurista è un retore alto, e ci sono varie tecniche argomentatorie. L’applicazione di contratti collettivi non deriva dalla loro giuridica obbligatorietà ma da una sorta di presunzione di corrispondenza tra minimi contrattuali collettivi e retribuzione sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost. cui il lavoratore ha diritto.
Il giudice può applicare (spesso) come può non applicare il contratto collettivo, seguendo altri orientamenti: ISTAT, usi territoriali, etc. e qui risiede la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro parasubordinato. I lavoratori coordinati e continuativi non sono lavoratori subordinati e quindi non si parla di retribuzione, pertanto non si applica a questi la tesi regina. Dal punto di vista esegetico e tecnico sicuramente il primo argomento che esclude l’applicazione della tesi è la mancanza della subordinazione: l’eventuale norma che difende i lavoratori in violazione del principio d’uguaglianza è la Legge Biagi, la quale prevede che la remunerazione deve essere proporzionale alla qualità e quantità di lavoro in relazione agli usi legati a quell’opera o a quelle opere.
Solo la legge potrebbe ammonire sulla necessità di fissare minimi per le collaborazioni coordinate e continuative a “cerchi concentrici”: un reddito minimo dev’essere garantito a tutti vuoi che sia di subordinazione, vuoi che sia di co.co.co.. Il giudice non è obbligato ad utilizzare i contratti collettivi ma il 95% dei casi vengono applicati. La non obbligatorietà (se fosse obbligatorio il contratto collettivo sarebbe applicato come legge) delle clausole del contratto collettivo comporta che i giudici abbiano un margine di discrezionalità, e la più grande manipolazione è stata compiuta dal legislatore nel pubblico impiego applicando un principio senza però dichiararlo venendo avallato dalla Corte Costituzionale, e si è arrivati a questo obiettivo senza violare l’art. 39 Cost. con un escamotage: stabilendo che nel P.I. vale il principio di parità di trattamento con l’applicazione di una tariffa, non già perché quindi il contratto collettivo sia (o meno come non è) obbligatorio.
Poiché tutte le amministrazione sono rappresentate dall’ARAM, queste devono tutte applicare il contratto collettivo dell’ARAM, ma questo contratto collettivo non è obbligatorio, ma l’effetto è identico al caso in cui p.es.: il contratto collettivo sia obbligatorio. Il contratto collettivo non si adatta alla realtà geografica, ma si attesta sulla media, quindi un’impresa con quattro lavoratori non applicherà mai il contratto. La Corte di Cassazione si fa custode del principio ed essa funge da semaforo della retribuzione equa sindacando i casi in peius. Anche nelle ipotesi più ragionevoli bisogna verificare che si abbia una condizione giustificata per determinare una retribuzione inferiore.
Il giudice deve motivare la determinazione inferiore rispetto alla contrattazione collettiva: la Cassazione effettua un controllo di merito attraverso la motivazione. La determinazione di una retribuzione inferiore non può però trovare una condizione in materia ambientale, culturale, economica, sociale depressa: non si può dire che il costo della vita sia inferiore. La determinazione della giusta retribuzione non può essere giustificata sulla base della condizione di lavoro dell’area geografica: non può essere addotta la disoccupazione.
Di recente la Cassazione ha dichiarato un correttivo nel 1998: fermo restando che non si può giustificare sulla base del mercato depresso, tuttavia se circolano contratti collettivi aziendali che prendono atto della depressione economica derogando i contratti collettivi nazionali, è ammissibile una tariffa contrattuale minore.


8.       DIRITTO DEL LAVORO 04/04/2011 – Il recesso dal contratto di lavoro


Il parametro di riferimento per la retribuzione sufficiente è il contratto collettivo per la giurisprudenza leggittimizzatrice con una doppia garanzia: quella dei lavoratori e quella del sindacato, fornendo una particolare forza cogente al contratto collettivo. Il giudice tecnicamente non è obbligato ad applicare il contratto collettivo, può discostarsi, ma la Cassazione è abbastanza rigida. La struttura della retribuzione è molto articolata contenendo anche voci dedicate alla sufficienza. Una sentenza del 2008 ci dice che in tema di adeguamento il giudice di merito non può far riferimento a tutti gli elementi retributivi che concorrono a formare l’intera retribuzione, ma deve prendere in considerazione solo gli elementi costituzionalmente previsti.
Rispetto al problema della possibilità che a livello aziendale e territoriale possano costituirsi retribuzioni inferiori, un recente accordo interconfederale ha regolato questa possibilità: se a livello territoriale o aziendale per giustificato motivo derogano il contratto collettivo, allora non saranno illegittimi i contratti individuali con una retribuzione sotto la sufficienza. Possono derogare in peius solo quando c’è crisi con un accordo interconfederale: al fine di governare direttamente nel territorio situazioni di crisi aziendali o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’area, i contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria possono consentire che in sede territoriale, fra le Associazioni industriali territoriale e le strutture territoriali delle Organizzazioni sindacali stipulanti il contratto medesimo, siano aggiunte intese per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale o temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria.[2]
A volte le pronunce dei giudici autorizzano divergenze del 20%-30% in modo molto osteggiato dalla Cassazione, e l’unica concessione che la suprema Corte tende a fare è solo quando esistano contratti territoriali con determinazione e consenso delle organizzazioni sindacali.
Si pone il problema della parità di trattamento e se questo è previsto dai contratti collettivi: dall’art. 36 Cost. si evince questa tutela? Può il datore pagare di più chi è più puntuale e laborioso? Nel settore privato sulla base dell’art. 41[3] sarebbe anche legittimo organizzarsi per proprio conto, ma nel settore pubblico ovviamente non è assolutamente previsto. Il limite nell’impresa è il divieto di discriminazione per sesso.
Le statistiche degli ultimi anni hanno dimostrato un crescendo preoccupante di licenziamenti che confutano coloro i quali affermano l’impossibilità di licenziamento: il tasso di turnover[4] è più alto di altri paesi, c’è un grandissimo flusso in uscita e le aziende ampliano e restringono l’occupazione in maniera molto elevata. Soltanto come extrema ratio l’imprenditore italiano utilizza il licenziamento del lavoratore stabile, ma drammaticamente al giorno d’oggi vi sono instabilità pure nel lavoro a tempo indeterminato.
Il recesso è una volontà unilaterale di recedere prima dell’estinzione del contratto o al di là dell’estinzione automatica del contratto. Il recesso è una causa tipica d’estinzione del contratto di lavoro. Dal contratto si recede volontariamente ed il rapporto si estingue automaticamente dopo dal recesso dal contratto. Le ipotesi minori d’estinzione sono: risoluzione consensuale, maturazione del termine finale, impossibilità sopravvenuta, morte del lavoratore. Il recesso unilaterale può riguardare entrambi i contraenti, e si tratta della causa di estinzione del rapporto di lavoro più rilevante dal punto di vista normativo e sociale (per il lavoratore consiste nelle dimissioni, per il datore nel licenziamento).
I codici liberali consideravano il recesso una volontà libera riconosciuta paritariamente alle medesime condizioni ad entrambe le parti. Il Codice del 1865 guardava con sfavore il vincolo perpetuo, ed il recesso era ab nutum, con assoluta libertà, senza motivazione. Nel codice del 1942 all’art. 2118[5] il recesso è stato regolamentato, con la presenza del preavviso (o con una scadenza, o con immediatezza ma col pagamento del tempo di preavviso), senza obbligo di motivazione. L’unico limite posto alle parti è quindi il preavviso (negli USA non esiste questo limite). Il datore ed il lavoratore non devono motivare e proprio nell’obbligo di motivazione risiede il controllo, e senza controllo non c’è limite.
Fin quando si può liberamente licenziare non c’è alcun vincolo: ma c’è una falsa parità in quanto ha più potere il datore, la cui scelta non è controllata (i recessi avvengono più spesso per licenziamento: legittimato dall’art. 41 “libertà d’organizzazione ed iniziativa economica”). Fa da contr’altare però l’art. 4 Cost.: Diritto al Lavoro[6]. Al contrario del modello americano, quando il datore vuole liberarsi del lavoratore senza pagare il preavviso (ipotesi estrema) bisogna motivare. La motivazione obbligatoria è controllo, ma entro il Codice Civile il controllo è limitato alla valutazione relativa alla necessità o meno del preavviso e non altro.
La giusta causa (che è una clausola generale) viene determinata dal giudice, e nel Codice Civile si dava un regime di libera recedibilità (prima del 1966). Il codice però strideva col disposto della Costituzione (in particolare dell’art. 4: Diritto al Lavoro), che sta alla base di una legificazione nel senso di una riduzione sempre più evidente dell’area della libera recedibilità. Per licenziare il datore deve giustificare essendo così controllato, e se chi controlla ritiene esserci l’ingiustificazione, allora può sanzionare con un bel pagamento di un risarcimento, o con una riassunzione o con una reintegrazione.
L’intera evoluzione normativa si pone intorno a due principi: man mano il legislatore seleziona le ipotesi di recesso legittimo da quello illegittimo, e nella misura in cui vengono posti limiti al potere di licenziamento sorge il corollario del controllo. Perché ci ha messo tanto la Cort. Cost. a limitare il potere del datore la libertà di recesso? La Cort. Cost. non ha riconosciuto il valore precettivo dell’art. 4 Cost. Il successivo intervento in Italia è stato la Legge 604/1966.


9.      DIRITTO DEL LAVORO 05/04/2011 – Licenziamento


La Corte Costituzionale nel 1965 dice che non è possibile porre limiti in via giurisprudenziale, ed il principio dell’art. 4 Cost. non è precettivo ma programmatico, al contrario dell’art. 36. Il legislatore ascoltando la voce della Corte emana una legge non del tutto nuova, con una regolamentazione già prevista da un accordo interconfederale nel 1950. Il sistema attuale nasce quindi nel 1966 inserendo limiti al licenziamento (autorizzando il giudice a giudicarne la legittimità) e delle eventuali sanzioni. Il giudice è il solo che può valutare la legittimità di licenziamenti (a differenza della Francia che adopera un organo amministrativo).
Quando si può legittimamente licenziare un lavoratore? Non esiste più il licenziamento libero (Sistema USA), ed è un atto causale, deve avere una ragione economico-sociale: si può licenziare solo in presenza della giusta causa ma anche per giustificato motivo. Quali sono le conseguenze del licenziamento illegittimo? O il risarcimento del danno (il licenziamento è efficace, ma il datore è costretto a pagare un risarcimento del danno causato da questo) o nella reintegra nel posto di lavoro (il licenziamento non è efficace, il datore è obbligato a rimettere le cose a posto). Il risarcimento non è satisfattivo; il nostro sistema attuale è misto.
Il principio di causalità è stato recepito dalla Carta di Nizza, all’art. 30: “Ogni lavoratore ha il diritto contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.” La giusta causa non è più vincolata al preavviso: si deve trattare di gravissimo inadempimento delle obbligazioni contrattuali. Il giustificato motivo (soggettivo) prevede un notevole inadempimento delle obbligazioni contrattuali, e (quello oggettivo) ragioni attinenti all’attività produttiva (con una differenza di tipo quantitativo tra gravissimo e notevole), all’organizzazione del lavoro ed al regolare il funzionamento di essa (esulando da ogni tipologia comportamentale del lavoratore).
La giusta causa è quella che consente il licenziamento immediato, il giustificato motivo esige il preavviso: essendo una differenza quantitativa per la gravità della prima non si può tollerare neanche un giorno in più del lavoratore: si tratta di un gravissimo inadempimento contrattuale. Si può licenziare in tronco per una questione che riguarda le obbligazioni contrattuali (comportamentali, fedeltà, sicurezza), o si può controllare anche la vita del lavoratore? Esempio: Un cassiere di fiducia di una banca viene scoperto come giocatore d’azzardo col vizio del gioco, non viene meno a nessuna obbligazione contrattuale però; cosa succede?
E’ vincolato il giudice alle definizioni (tipizzate) di giusta causa e giustificato motivo? Tiene conto delle tipizzazioni di definizione di giusta causa e di giustificato motivo ex art. 3 L. 183/2010. Poiché la legge non può vincolare l’interpretazione del giudice, non può vincolare questo all’utilizzo delle tipizzazioni: il giudice deve essere libero nella sua interpretazione.
La malattia prevede la sospensione degli obblighi contrattuali, ma chi non si cura nel periodo di malattia crea un danno al datore in quanto ritarda il ripristino della salute. La condotta inerente alla vita privata del lavoratore, di norma irrilevante ai fini della lesione del rapporto fiduciario tra dipendente e datore di lavoro, può integrare giusta causa di licenziamento qualora fatti e comportamenti estranei alla sfera del contratto siano tali a far venire meno quella fiducia che integra presupposto essenziale della collaborazione tra datore e prestatore di lavoro. Nel caso di giusta causa di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione dell’elemento della fiducia.


10.  DIRITTO DEL LAVORO 06/04/2011 – Influenza della responsabilità penale nel rapporto


Il proscioglimento esclude sempre la sussistenza di una giusta causa di licenziamento? La responsabilità penale incide sul rapporto di lavoro tanto da giustificare il licenziamento? Il giudice del lavoro deve farsi influenzare dalla sentenza penale del lavoratore?
Qualora il reato si fermi alla fase preparatoria non c’è sussistenza di responsabilità, quindi sentenza di proscioglimento, ma ancorché questi comportamenti non fanno sorgere responsabilità penale, sono fatti acclarati che fanno sciogliere il rapporto fiduciario e quindi integrano interamente la giusta causa civili ai fini del licenziamento. Il giudice civile non sarebbe assolutamente vincolato alla sentenza penale. Il giudicato penale dopo il licenziamento considerato valido per giustificato motivo oggettivo in caso di applicazione di misure restrittive della libertà personale.
Possono rilevare quindi anche fatti estranei al rapporto di lavoro ma con la dovuta contestualizzazione che si misura rispetto ad un dato saliente, senza considerare l’entità del danno patrimoniale, indipendentemente della sentenza penale. Nella nozione procedurale i giudici hanno operato una fusione tra giustificato motivo soggettivo e la giusta causa. E’ stato introdotto l’elemento del licenziamento disciplinare ed è una fattispecie che trascende e sussume il giustificato motivo soggettivo e la giusta causa.
L’art. 7[7] dello Statuto dei Lavoratori non regola il licenziamento disciplinare, ma le sanzioni disciplinari. E’ una norma che serve a delimitare uno dei poteri fondamentali dell’Impresa come autorità privata. Questo potere proprio perché è forte dev’essere sottoposto a controllo e la limitazione avviene sulla base di norme procedurali: la prima regola procedimentale è darsi un codice disciplinare e pubblicarlo. Il datore non può irrorare sanzioni senza previamente aver contestato l’addebito al lavoratore ed averlo sentito a sua difesa: il contraddittorio deve prevedere il diritto di difesa.
E’ una sorta di giustizia privata bilaterale ma dove il giudice è una delle parti: è un fenomeno molto particolare in quanto il datore è inquirente e giudice. Se il licenziamento è qualificato come sanzione disciplinare si applica l’art. 7 dello Statuto (contestazione dell’addebito, difesa del lavoratore assistito, se vuole, dal sindacato), ma se non è qualificato come sanzione disciplinare si applica la disciplina della Legge 604/1966 in quanto disciplina ordinaria (comunicazione per iscritto del recesso, possibilità di richiedere i motivi entro 15 giorni). La soluzione giurisprudenziale è quella del licenziamento come sanzione ontologicamente disciplinare.
Quanto ad efficacia scomparirebbe il licenziamento per giusta causa, non potendo licenziare immediatamente. L’art. 6 della legge 604/1966 dice che il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni, dalla ricezione della comunicazione, ovvero dalla comunicazione del motivo ove questa non sia contestuale a quella del licenziamento. Il licenziamento si può impugnare anche con mezzi extragiudiziari, p.es.: con una lettera dove si dichiara formalmente di impugnare il licenziamento.
L’impugnativa può essere giudiziale (impedisce, in ogni caso la decadenza), stragiudiziale (qualsiasi atto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore d’impugnare). Il licenziamento disciplinare è relativo ad inadempimento, al comportamento del lavoratore; ma il licenziamento per ragioni economiche ha tutta un'altra motivazione: motivo oggettivo individuale o plurimo, collettivo, per la politica dell’azienda, per crisi economica, etc: ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.


11.  DIRITTO DEL LAVORO 18/04/2011 – Il licenziamento per ragioni economiche e collettivo


La fisiologia del licenziamento è quando la ragione non dipende dal lavoratore ma da una valutazione dell’imprenditore sul modo più efficace sul gestire l’impresa: c’è crisi e bisogna ridimensionare l’azienda, oppure non c’è crisi ma si vuole sostituire il lavoratore con tecnologia. Questo licenziamento determinato da ragioni economiche  nel nostro ordinamento è determinato da una direttiva europea condivisa da tutti gli stati europei. Il licenziamento economico può riguardare un solo lavoratore, come più lavoratori (più frequentemente). Invece il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dipende da ragioni differenti: la grande impresa quando licenzia per ragioni economiche lo fa raramente per singoli provvedimenti economici.
Tutto ciò che riguarda l’attività produttiva e tutto ciò che sia inerente all’organizzazione del lavoro ed al regolare il funzionamento di essa ricade nella tutela dell’art. 41 Cost., sulla libertà dell’organizzazione economica. Quando il datore decide di licenziare uno o più lavoratori per ragioni oggettive può vedersi considerata la sua scelta insindacabile dal giudice? L’obbligo di motivazione porta con sé la possibilità di controllo da parte del giudice; per ragioni soggettive il giudice deve valutare la sensibilità della motivazione. Può operare il giudice allo stesso modo di quando si valutano le ragioni di giustificato motivo soggettivo? In prima istanza si risponderebbe no: il giudice non potrebbe sostituirsi al datore di lavoro nell’organizzazione d’impresa. Il giudice può limitarsi ad un solo controllo di legittimità.
La giurisprudenza si deve limitare a due tipi di controllo: nesso di causalità tra organizzazione economica e licenziamento con la dimostrazione della sussistenza della consequenzialità. Bisogna dimostrare che il lavoratore in uscita non serva in alcun modo, in alcuna situazione o reparto, in modo utile. La Giurisprudenza opera un controllo rigorosissimo di legittimità dell’applicazione di questo tipo di procedimento di licenziamento: tutto si gioca sugli oneri probatori (Art. 3 L. 604/1966)[8].
Nel caso della malattia cronica, e quindi di assenza con contestuale sostituzione del lavoratore da parte del datore di lavoro ci si domanda se sussista giustificato motivo oggettivo: in realtà la ratio vuole che si faccia di tutto per non licenziare (anche il degrado di posizione lavorativa, attribuendo mansioni inferiori), quindi la giurisprudenza è contraria, a meno non si dimostri che è impossibile utilizzare il lavoratore in altre mansioni. Lo stato di detenzione del lavoratore per fatti estranei al rapporto di lavoro non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali (impossibilità della prestazione), e si giustifica il licenziamento solo in caso di assenza intollerabile data la durata estesa della detenzione, della piccolezza dell’azienda.
Ci sono delle ipotesi in cui il licenziamento è comunque nullo indipendentemente dalle ipotesi di giustificato motivo, con la conseguenza della reintegrazione: per ragioni di discriminazione, di ritorsione, intimato durante il periodo di malattia o maternità (anche nella piccola impresa), in caso di matrimonio.
Ci sono delle ipotesi in cui il licenziamento è invece inefficace, quando è privo delle forme prescritte: comunicazione per iscritto, possibilità di richiedere i motivi entro 15 giorni, obbligo di rispondere entro 7 giorni, altre “irritualità” (non immediatezza, modificazione dei motivi). Il rimedio è comunque la reintegrazione quando è applicabile. Tre sono i regimi d’invalidità del licenziamento: nullità, annullabilità, inefficacia.
Il licenziamento collettivo è stato disciplinato da una direttiva europea: quando il datore deve ridurre drasticamente la produzione si pongono in essere chiusure di unità produttiva o d’interi reparti. Questo tipo di licenziamento si divide in due fattispecie contenute nella legge 223/1992, che prevede all’art. 24 la titolarità del diritto di un tal tipo di licenziamento per aziende superiori a 15 dipendenti, e per licenziamenti di non meno di 5 dipendenti in 120 giorni, con conseguenza di una trasformazione dell’attività di lavoro: drastica riconversione produttiva.
La messa in mobilità prevede il licenziamento, invece la cassa integrazione non lo prevede: quando si tratta di questo tipo di licenziamento non è necessario un minimo di dipendenti e non è necessario neanche un limite temporale. Questo viene regolato dicendo che gli obblighi non sono di carattere sostanziale, il giudice deve valutare solo la legittimità della procedura di licenziamento. Il procedimento è amministrativamente molto formalizzato, e l’impresa che voglia legittimamente licenziare collettivamente deve coinvolgere i sindacati in modo sensibile, comunicare analiticamente a questi dell’iniziativa di licenziamento collettivo con motivazione. Dopo questa comunicazione bisogna convocare i sindacati (i quali chiedono l’esame congiunto che serve a capire se è possibile ridurre il numero dei licenziamenti programmati entro sette giorni, sempre).
I sindacati sono liberi di fare controproposte, senza obbligo di contrattazione. Se si arriva ad un accordo coi sindacati con sottoscrizione il datore riceve una serie di ausili (risparmio del licenziamento collettivo, benefici di carattere finanziario). Il legislatore dà una definizione temporale: 45 giorni. In questa fase bisogna trovare misure alternative al licenziamento, individuando i criteri di scelta del licenziamento. Qualora non c’è accordo sindacale, e accordo sui criteri, soccorrono i criteri sussidiari disposti dalla legge: carichi di famiglia, anzianità d’età o di servizio, esigenze tecnico-produttive, etc. Continua la procedura dal tavolo sindacale alla struttura amministrativa, dal negoziato dell’azienda ci si trasferisce alla Direzione Provinciale del Lavoro la quale convoca datori e sindacati. La fase amministrativa deve durare al massimo 30 giorni tentando di nuovo di raggiungere un accordo: la situazione è grave e le autorità pubbliche intervengono (Prefettura, Comune, etc.): il mediatore pubblico utilizza le proprie risorse. Dopo le due fasi il datore è autorizzato a licenziare, e la terza fase (del licenziamento) prevede l’applicazione dei criteri di scelta. Il licenziamento avviene per iscritto rispettando il termine di preavviso (o con indennità), ed il datore è obbligato ad inviare alla Direzione Provinciale del Lavoro a comunicare la lista dei lavoratori da iscrivere nella lista di mobilità.
Le conseguenze del licenziamento illegittimo perché privo di giusta causa o giustificato motivo sono: il risarcimento del danno, o l’effettiva reintegrazione nel posto di lavoro. In tutta Europa si oscilla fra questi due rimedi, e l’Italia, prima dello Statuto dei Lavoratori, prevedeva solo il risarcimento del danno. La legge 604/1966 (che non è stata abrogata) prevede all’art.4 (ed ha previsto in esclusiva) il solo risarcimento entro un limite minimo e massimo. E’ però una falsa tutela: basta un risarcimento basso per confermare la situazione di fatto del licenziamento. Astrattamente dà la possibilità di riassumere, ma è molto più conveniente pagare l’esiguo risarcimento: questo sistema di risarcimento tout court non dà altro: c’è una monetizzazione del licenziamento.
La tutela reale è l’effettiva reintegra nel posto di lavoro (Art. 18 Statuto dei Lavoratori, Legge 300/1970): il giudice che dichiara invalido (nullo, annullabile, inefficace) il licenziamento, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore del posto di lavoro. Il giudice però non può obbligare materialmente all’adempimento, né è stata prevista la condanna penale per l’inadempimento, ma è stata prevista una sanzione civile: pagamento delle mensilità mancate (minimo 6 mesi). 
Se nel frattempo il lavoratore ha lavorato altrove non gli può essere tolto guanto ha guadagnato.



[1] Furono denominati decreti Vigorelli i decreti legislativi emanati in base alla legge 14 luglio 1959 n. 741 (proposta dal ministro del lavoro Ezio Vigorelli), con la quale il Parlamento italiano delegò il Governo a recepire in un atto avente forza di legge i contenuti dei contratti collettivi di diritto comune stipulati sino a quel momento, al fine di assicurare minimi inderogabili di trattamento economico e normativo a tutti gli appartenenti ad una stessa categoria. Contro la legge Vigorelli furono avanzati da più parti dubbi di legittimità costituzionale anche perché attribuiva di fatto ai sindacati la potestà di introdurre, sia pure tramite l'interposizione di un decreto legislativo, delle norme di legge, in senso formale, senza nemmeno passare dai vincoli di una legge attuativa dei principi fissati dall'art 39 della costituzione.
La Corte costituzionale superò le obiezioni sollevate in base alla considerazione che la legge delega era «provvisoria, transitoria ed eccezionale». Minor fortuna ebbe la legge di proroga che il Parlamento approvò l'anno successivo, la quale, non potendosi più considerare "eccezionale", fu dichiarata dalla Corte costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 39 Cost.
Tra i tentativi legislativi di estendere con efficacia erga omnes l'ambito di efficacia dei CCNL di diritto comune va inoltre ricordato l'art. 36 dello Statuto dei lavoratori (l. 300/70), che impone all'appaltatore di opere pubbliche di applicare ai propri dipendenti condizioni non inferiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva. Il medesimo obbligo è imposto dalla legge 389/89 all'imprenditore che voglia fruire della c.d. fiscalizzazione degli oneri sociali.
[2] Non presente nel manuale di “Le relazioni Sindacali”, ma altrettanto importante.
[3] L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
[4] In un'azienda, sostituzione del personale che ha cessato il rapporto di lavoro,  e s’intende la rotazione, il rinnovo o la sostituzione del personale collocato a riposo. La velocità del turnover può essere alta (nei periodi di piena occupazione) o bassa (nei periodi di stagnazione).

[5] Art. 2118 c.c.: Recesso dal contratto a tempo indeterminato.

Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti (dalle norme corporative), dagli usi o secondo equità (att. 98). In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l'altra parte a un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.

[6] La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
[7] Le norme disciplinari relative alle sanzioni alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia é stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano. Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Il lavoratore potrà farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato. Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro; inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.  In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possano essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa. Salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio. Qualora il datore di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il proprio rappresentante in seno al collegio di cui al camma precedente, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore di lavoro adisce l' autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione del giudizio. Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. 
[8] Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.